Photography as a Service – un sottoinsieme del concetto di Internet of Things – ci farà vivere circondati da fotocamere che potranno immortalare ogni istante della nostra quotidianità. Insieme alle potenzialità delle intelligenze artificiali cambierà l’approccio alla fotografia autoriale.
di Leonardo Brogioni
La mia auto è dotata di un dispositivo satellitare che monitora e registra su un sito internet ogni suo movimento, consentendomi di verificare eventuali infrazioni o di avere dati utili in caso di sinistro. Molti miei conoscenti accendono il riscaldamento di casa dal proprio smartphone, grazie a un’app dedicata. La connessione a Internet consente a molti strumenti di uso quotidiano di offrire servizi accessori per semplificarci la vita o renderla più comoda. È il concetto di Internet delle Cose. In maniera sempre più massiccia il web è dentro la nostra roba.
Tralasciando la questione – peraltro non secondaria – riguardante il tracciamento dei nostri dati e la nostra privacy che Internet of Things comporta, vorrei qui prendere spunto da un bell’articolo apparso su PetaPixel per far notare che i nostri oggetti non solo sono dotati di Internet, ma sempre più spesso hanno anche una fotocamera al loro interno. E la combinazione Internet+Fotocamera sappiamo bene che può essere esplosiva.
Telefoni, citofoni, automobili e frigoriferi sono già dotati di macchina fotografica. Aspirapolvere automatizzate e lampade presto ne avranno una al loro interno. Photography as a Service appunto: molto presto il nostro ambiente domestico potrebbe restituirci immagini di ogni momento della nostra vita privata.
“Potremo avere foto della nostra festa di compleanno da svariati punti di vista, senza tirar fuori la nostra fotocamera” leggo su PetaPixel.
A tutto questo dobbiamo aggiungere la capacità delle intelligenze artificiali di produrre fotografie su richiesta in modo sempre più preciso.
L’opera «Portrait of Edmond Belamy» realizzata dal collettivo artistico parigino Obvious, appare come un ritratto pittorico raffigurante un gentiluomo ed è stata venduta nell’ottobre 2018 durante un’asta di Christies a New York per l’interessante cifra di 432,500 $. A ben guardare nella parte inferiore destra del quadro c’è la firma degli autori, che però non è un nome, ma è la formula di un algoritmo, quello da loro utilizzato per realizzare l’immagine. Ebbene sì, il Ritratto di Edmond Belamy non è un quadro ma un’immagine ottenuta con un’intelligenza artificiale. Un finto quadro? Una riproduzione? Un’opera d’arte? È sicuramente una svolta epocale nel mercato dell’arte dato che qualcuno di prestigioso si è preso la briga di metterla all’asta e qualcun altro di competente ha speso quasi mezzo milione di dollari per averla. Ma le vere questioni sono altre e prendono avvio dagli algoritmi che sono le fondamenta delle cosiddette GAN (Generative Adversarial Network) a loro volta base delle intelligenze artificiali capaci di generare anche immagini. Le GAN si basano sul conflitto tra due elementi, un generatore e un discriminatore. Uno è un falsario, l’altro un detective. Il primo prova a costruire dati ingannando il secondo che a sua volta prova a distinguere i dati reali da quelli creati artificialmente per smascherare il primo; allora il primo prova a costruire seguendo un’altro metodo e il secondo lo incalza con le sue indagini. Questo gioco di ruolo tra ladro e guardia crea un meccanismo di apprendimento automatico (o apprendimento competitivo) grazie al quale – dopo molti inseguimenti e qualche rissa – i due elementi forniscono una serie di informazioni utili a generare immagini, sempre più precise.
Le “reti generative avversarie” (o “reti antagoniste generative”) hanno permesso a due ingegneri di Google di mettere a punto un software in grado di creare fotografie di paesaggi partendo da immagini presenti su Google Street View. Creatism: fotografie realizzate senza fotocamera e senza fotografo.
Online sono presenti strumenti capaci di ottenere ritratti fotografici di persone inesistenti, con risultati sorprendenti perché assolutamente credibili, realizzati grazie alle GAN. Uno dei primi è stato Rosebud AI: fotografie realizzate senza soggetti (e oggi usate soprattutto per le foto di e-commerce, dove finte modelle sostituiscono le modelle in carne e ossa con grande risparmio di tempo e denaro).
Più recentemente è stata sviluppata una nuova tecnologia che ha usato le GAN per generare animazioni video partendo da fotografie già esistenti (My Heritage – Deep Nostalgia), simile a quella che viene spesso utilizzata per i cosiddetti deepfake. Video ottenuti combinando e sovrapponendo immagini e audio originariamente scollegati l’uno dall’altro.
Riassumendo ormai si possono realizzare immagini senza fotograf*, senza fotocamera e senza soggetti.
Quindi PaaS e AI ci costringono a prendere atto del fatto che le fotocamere tradizionali diventano oggetti anacronistici e che i fotografi dovranno cambiare atteggiamento, autori o professionisti che siano. Il virtuosismo tecnico, la presenza e il rapporto con i soggetti non sono più i soli parametri interessanti.
“Con PaaS, il processo creativo non sarà più controllato da coloro che hanno padroneggiato gli strumenti del mestiere, come una macchina fotografica o Photoshop, ma piuttosto da coloro che avranno le menti più creative. L’immaginazione migliorerà le abilità.” (sempre su PetaPixel)
E a mio parere le menti più creative non potranno sottrarsi ad un ragionamento sul mezzo, per considerare le fotocamere non solo come un invadente servizio, ma come un dispositivo da studiare e piegare al proprio volere. Uno degli scopi degli artisti sarà il “profanare il dispositivo”, seguendo il pensiero del filosofo Giorgio Agamben, per riportarlo ad un uso libero da parte delle persone e sottrarlo alle macchine, alle aziende o alle istituzioni.
Come ha detto e ha fatto Irene Fenara con i suoi progetti realizzati utilizzando le videocamere di sorveglianza. Ne ho parlato con lei per il Festival dei Diritti Umani, nel video sottostante ci parla delle sue profanazioni di algoritmi e web-cam.