Gli autori di immagini che riprendono atti cruenti di violenza per poi postarle sui vari social network compiono un’azione passiva che può diventare attiva. Il mio contributo alla riflessione della professoressa Marina Calloni pubblicata su Reset.it.
di Leonardo Brogioni
Nell’articolo pubblicato su Reset “Guardare e filmare il dolore degli altri: un’azione passiva” la professoressa Marina Calloni fa un’interessante riflessione sugli autori di immagini che riprendono atti cruenti di violenza per poi postarle sui vari social network; sostenendo che questi gesti sono “una occulta volontà di protagonismo” da parte di nuovi “guardanti”; che non sono opere di protesta, ma azioni vili; aggiungendo infine che “le virtù civiche e l’attivismo sociale si misurano anche nella capacità empatica di non nascondersi o scappare di fronte al pericolo, altrui”.
Inevitabile che l’opinione dell’autrice mi porti alla memoria queste parole di Susan Sontag, tratte dal saggio del 2003 Davanti al dolore degli altri.
“Alle immagini si rimprovera di offrire la possibilità di guardare la sofferenza da lontano, come se ci fosse qualche altro modo di farlo. Ma anche guardare da vicino – senza la mediazione di un’immagine – resta sempre e soltanto guardare.
Alcune delle qualità negative attribuite alle immagini di atrocità non si differenziano dalle caratteristiche della vista stessa. La vista non richiede sforzi, la vista ha bisogno di distanza nello spazio; la vista può essere interrotta (abbiamo palpebre sugli occhi, non ci sono porte sulle orecchie). Le stesse qualità che indussero i filosofi dell’antica Grecia a considerare la vista il primo e più nobile tra i sensi vengono ora associate a un deficit.
Si ritiene che ci sia qualcosa di moralmente sbagliato nel compendio di realtà offertoci dalla fotografia; che non si abbia alcun diritto di fare esperienza a distanza della sofferenza degli altri, privata della sua cruda forza; che si paghi un prezzo umano (o morale) troppo alto per quelle qualità della visione un tempo così ammirate – quelle qualità che, consentendoci di prendere le distanze dall’aggressività del mondo, ci rendono liberi di osservare e, se vogliamo, di prestare attenzione. Ma così non facciamo che descrivere il funzionamento della mente stessa.
Non c’è nulla di male nel fare un passo indietro e pensare. Nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro.”
Ma non c’è soltanto questa naturale e – pare – ormai inevitabile tendenza del genere umano a difendersi dalle atrocità tramite la fotografia. C’è anche un altro aspetto che in questa epoca, succube dei social network e del conseguente bisogno artefatto di apparire, fa sì che tutti gli atteggiamenti esibizionisti, legati anche al gesto di scattare una foto, emergano in maniera prepotente e si incastrino nel meccanismo mediatico e della ricerca di profitto tipico di questa società. Cito ancora Susan Sontag:
“Come diceva il vecchio slogan pubblicitario della rivista Paris Match, fondata nel 1949: “Il peso delle parole, lo shock delle foto”. L’attività fotografica è governata da una caccia alle immagini più drammatiche (così spesso le si definisce) che è del tutto normale in una cultura in cui lo shock è divenuto uno dei più importanti criteri di valore e incentivi al consumo.(…) In una cultura radicalmente riorganizzata dai valori del mercato, la pretesa che le immagini siano stridenti, clamorose e rivelatrici appare più che altro un segno di elementare realismo e di fiuto per gli affari. Come richiamare altrimenti l’attenzione sul proprio prodotto o sulla propria arte? Come lasciare altrimenti un’impronta quando si è costantemente esposti alle immagini, e sovraesposti a una manciata di immagini viste e riviste di continuo? L’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia.”
Da un lato dunque l’insopprimibile – e talvolta perverso – bisogno di documentare visivamente anche le atrocità, dall’altro un utilizzo strumentale – e anch’esso perverso- delle immagini a fini manipolatori ed economici. Come possiamo difenderci o sopperire a questo meccanismo?
La strada non è quella di demonizzare chi realizza fotografie, che sia un professionista, un autore o un cosiddetto citizen journalist.
Questa tendenza tipicamente italiana a considerare i fotografi – dilettanti o professionisti – come dei “guardoni” è rischiosa e deriva da lontano, ha motivazioni storiche. In epoca fascista la fotografia è stata usata sia come propaganda sia come strumento di controllo. Inevitabile il crearsi di una certa avversione nei suoi confronti. Negli anni ’70 le famose fotografie del manifestante con la P38 puntata ad altezza d’uomo in via De Amicis a Milano sono state le gocce che ha fatto traboccare il vaso: da quel momento in Italia ogni fotografo è stato considerato un delatore. Nei due periodi di maggior fermento e rinnovamento internazionale nelle arti, nella cultura e nell’informazione (gli anni venti-trenta e gli anni settanta post ’68) la fotografia in Italia è rimasta ferma al palo e considerata come uno strumento di “spionaggio”.
Un gap che ci ha penalizzato nell’utilizzo della fotografia giornalistica e nell’indagine sulle sue potenzialità comunicative. Ha privato gli italiani di uno strumento utile alla memoria, necessario al formarsi di un pensiero critico.
Già, perché una foto ti costringe a fermare lo sguardo, come scrive ancora Susan Sontag:
“L’incessante susseguirsi delle immagini (televisione, streaming video, film) domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermo-immagine; la sua unità di base è l’immagine singola. In un’epoca di sovraccarico di informazioni, le fotografie forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare. Una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio. Ognuno di noi ne immagazzina centinaia nella propria mente, e può ricordarle all’istante.”
La potenzialità della fotografia non è stata accolta in Italia, neanche nei momenti in cui ne avevamo un gran bisogno, ovvero nel periodo del berlusconismo, quando la televisione ha manipolato gli spettatori in modo aggressivo e scorretto.
Con la fotografia avremmo potuto avere un mezzo per difenderci da questo attacco strumentale. Non l’abbiamo fatto per un pregiudizio nei suoi confronti. Siamo rimasti al palo, appunto, e ancora oggi ci troviamo in una situazione in cui la fotografia è usata al minimo delle sue potenzialità; il fotografo è considerato ancora un guardone o uno spione, quando invece potrebbe essere un professionista o un artista al servizio del bene comune.
La strada giusta per ovviare a questi meccanismi, che rischiano di stritolare chi realizza le fotografie, sta nelle mani di chi utilizza le fotografie. Dal punto di vista artistico e giornalistico ormai non si può più considerare soltanto una bella fotografia, ma si deve parlare di una serie di fotografia utile al racconto e all’analisi. E l’utilità di una fotografia dipende da chi decide prima di tutto se usarla e in secondo luogo come usarla. Mi riferisco agli editori, ai direttori di testata, ai gestori dei social network, a galleristi, curatori, critici. A tutti coloro che hanno la possibilità di decidere come, quando e dove utilizzare o divulgare un’immagine. Questo filtro è determinante. Ed è una responsabilità, deve essere una responsabilità. Alcuni dicono che ormai non è più possibile un’ecologia delle immagini, io invece ritengo che questa non solo sia possibile ma che sia necessaria e debba passare attraverso un processo di alfabetizzazione all’immagine che parta dalle scuole e che arrivi anche agli ordini professionali, prima di tutto all’Ordine dei Giornalisti.
La produzione di immagini ormai è fuori controllo, sia per quantità che per qualità. Dobbiamo quindi avere più cura e meno sciatteria, più attenzione e meno superficialità nella scelta e nell’utilizzo delle immagini. Tutt’ora le fotografie nell’editoria vengono usate come orpello estetico, come un accessorio, addirittura come tappabuchi. In realtà il loro potenziale narrativo, il loro potere di approfondimento e la loro capacità di stimolazione del pensiero e della memoria è ancora efficace. L’atteggiamento di chi scatta una fotografia anche di fronte alle atrocità, per qualsiasi motivo lo faccia, deve essere mediato da chi ha la responsabilità di scegliere se e come usare quell’immagine. Deve passare attraverso un dibattito redazionale pubblico che spieghi perché si è deciso di mostrarla. Deve arrivare a lettori e spettatori dopo una riflessione della quale sono stati messi al corrente. Perché non tutte le immagini hanno lo stesso peso e quest’ultimo è determinato dal contesto nel quale queste immagini vengono inserite.
Di questo devono farsi carico gli operatori dell’informazione, gli studiosi, i giornalisti, ma soprattutto gli editori, i direttori di giornali e anche i responsabili dei social network (che in questo momento risultano colpevolmente e dolosamente latitanti). È una responsabilità che non possiamo mancare, perché solo attraverso questa possiamo superare un meccanismo in cui ci siamo imbrigliati, in cui abbiamo fatto finire anche delle belle immagini utili. È questa responsabilità che può trasformare (per usare le espressioni della professoressa Calloni) “un’azione vile” in “un’opera di protesta”, che ribalta il nascondersi, lo scappare, l’esibirsi in “virtù civiche” e “attivismo sociale”.
Attraverso un uso della fotografia più serio e scrupoloso possiamo approfondire e contrastare la superficialità dilagante nell’uso delle immagini. Per andare oltre a quelle proposte stereotipate che ci hanno abituato a sfogliare e a scrollare, ma che ci hanno fatto dimenticare cosa significa guardare. Guardare non solo per ricordare, ma per pensare. Infatti, lasciando l’ultima frase a Susan Sontag:
“Forse attribuiamo troppo valore alla memoria, e non abbastanza al pensiero.”